LEE CHANG-DONG

Nome in coreano:

이창동

Pronuncia del nome:

i chang-dong

Professione:

Regista

Data di nascita:

01 Aprile 1954

Genere:

Uomo

Biografia

Lee Chang-dong è nato a Daegu nel 1954. La sua famiglia vantava ascendenze aristocratiche, ma si trattava di una nobiltà che era da tempo decaduta. Le sue simpatie per la sinistra del padre di Lee, inoltre, gl’impedivano di trovare un lavoro stabile, cosicché il mantenimento della famiglia pesava tutto sulle spalle della madre. Una situazione che ha costretto Lee ad acquisire una coscienza socio-politica sin dalla tenera età.

Giovanissimo, Lee si avvicina alla scrittura e al teatro, grazie all’influenza del fratello maggiore, attivo sulle scene teatrali di Daegu come attore. Per Lee la scrittura rappresenta una via di fuga rispetto alla sua difficile situazione familiare e una forma d’espressione ideale per i suoi pensieri e desideri segreti. Dopo aver conseguito la laurea in insegnamento della lingua coreana presso l’università Kyungpook, Lee inizia l’attività d’insegnamento nella scuola superiore di un villaggio montano nel 1980. A quest’epoca, acquisisce una prima notorietà nell’ambiente letterario vincendo il premio del quotidiano Donga Ilbo con il romanzo Jeonni. Si trasferisce quindi a Seoul, dove insegna alle superiori Sinil. Pubblica quindi altri due libri di notevole successo critico, Soji e Nokcheon.

Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, però, con il passaggio della società coreana dalla dittatura militare alla democrazia e la conseguente dismissione delle ideologie tradizionali che lasciano spazio al capitalismo rampante e al relativismo del post-modernismo, Lee conosce una crisi d’ispirazione che lo porta a pensare all’abbandono della scrittura. È in questo momento che si avvicina al cinema. Il regista Park Kwang-su, infatti, lo contatta per lavorare alla revisione dello script del film To the Starry Island (Keu Seom-e Gago Sipda, 1993), tratto dal romanzo dello scrittore Im Cheol-u. Per una serie di coincidenze, Lee si ritrova anche a lavorare come primo assistente regista sul film di Park e quindi fa il suo apprendistato alla regia. Lee collabora ancora con Park Kwang-su, scrivendo la sceneggiatura del successivo A Single Spark (Jeon Tae-il, 1995), biopic del sindacalista Jeon Tae-il che si diede fuoco sulla pubblica piazza tenendo in mano la dichiarazione dei diritti dei lavoratori all’epoca dell’industrializzazione forzata. L’anno dopo, Lee inizia la produzione del suo primo film da regista, Green Fish (Chorok Mulgogi, 1997). Nonostante si tratti di una pellicola di genere, il film vale a Lee un consistente riconoscimento critico e colleziona diversi riconoscimenti in patria (il Blue Dragon Award come miglior film e miglior attore a Han Seok-gyu, che vince pure il Grand Bell Award) e all’estero (il Dragons and Tigers Award di Vancouver).

Il suo secondo film, Peppermint Candy (Bakha Satang, 1999), che ripercorre a ritroso vent’anni di Storia della Corea del Sud, riavvolgendo la matassa della vita di un uomo che commette suicidio gettandosi sotto un treno, è il primo film coreano invitato ad aprire il Festival cinematografico internazionale di Pusan. Capolavoro riconosciuto del nuovo cinema coreano, da molti Peppermint Candy viene identificato come l’opera della maturità di Lee; il film è invitato alla Quinzaine des réalisateurs di Cannes e vince il Grand Bell Award come miglior film dell’anno.

Con il seguente Oasis (2002), toccante storia d’amore tra due emarginati che sfodera una pungente critica delle ipocrisie dell’istituzione familiare, Lee Chang-dong si fa un nome presso tutta la critica internazionale. Il film risulta, infatti, il più acclamato e premiato nel concorso della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2002: tra gli altri, Lee riceve il premio per la miglior regia, l’interprete Moon So-ri il premio Mastroianni e il film il premio della critica internazionale. Il trionfo veneziano porta Oasis, non certo un film facile o commerciale, anche ad un ingente riscontro di pubblico presso le platee coreane. All’epoca Lee sostiene la campagna presidenziale di Roh Moo-hyun. Una volta eletto, nel 2003, Roh nomina Lee Ministro della Cultura e del Turismo. Si tratta della prima volta che un cineasta viene chiamato ad assolvere un incarico ministeriale. Una carica che Lee, poco propenso a compromessi e pastoie della burocrazia, lascia già l’anno successivo, per tornare a dedicarsi alla creazione cinematografica. Con il suo film più recente, Secret Sunshine (Miryang, 2007), presentato in concorso a Cannes 2007 e ivi premiato per l’interpretazione di Jeon Do-yeon, Lee ha ulteriormente consolidato la sua reputazione internazionale e ha addirittura collezionato tre Asian Film Awards (premio panasiatico ispirato agli European Film Awards): per il miglior film, per la miglior regia e per la miglior attrice a Jeon Do-yeon. Con soli quattro film all’attivo, Lee è nondimeno già considerato uno dei più importanti autori del panorama cinematografico internazionale.

Dopo 8 anni nel 2018 Lee Chang-dong è tornato dietro la macchina da presa per dirigere “Burning”, l’adattamento cinematografico del racconto “Granai incendiati” di Haruki Murakami. Presentato in concorso al 71esimo Festival di Cannes il film ha ottenuto grande successo di critica e pubblico venendo distribuito in più di 100 paesi. “Burning” è stato inoltre il vincitore del “Festival Critics Award” alla 17esima edizione del Florence Korea Film Fest.

Presentazione Critica

Quando Lee Chang-dong esordisce nella regia con Green Fish (Chorok Mulgogi, 1997), la Corea del Sud sta attraversando un momento chiave della sua storia recente. Una svolta gravida di conseguenze nel panorama economico, sociale e culturale del paese, che s’è inscritta prepotentemente pure nelle sorti del cinema locale, lasciando tracce indelebili tanto nell’assetto industriale complessivo, quanto nei testi filmici stessi. Il 1997 è infatti l’anno della grande crisi asiatica che, originatasi in Tailandia, con le sue onde d’urto colpisce duramente l’economia coreana, segnando il suo primo grande impasse sin dagli anni Settanta, periodo dello sviluppo industriale a tappe forzate imposto dal dittatore ‘padre’ della Corea del Sud moderna, il Generale Park Chung-hee. Nel giro di pochi mesi l’agenzia Moody’s declassa l’affidabilità finanziaria del paese da A1 ad A3 prima e poi addirittura a B1, mentre il governo di Seoul chiede un ingente prestito al Fondo Monetario Internazionale; la valuta nazionale, il won, viene svalutata di oltre il 40% del suo valore.

In questo clima di crisi connessa a quella che gran parte dei coreani percepì come una grande umiliazione nazionale, si possono rintracciare i semi di un ritrovato orgoglio nazionale, nonché di un fervente spirito nazionalista che sono tra le cause primarie della rinascita del cinema coreano e che hanno influenzato e sono stati viceversa rinfocolati dallo sviluppo del cosiddetto nuovo cinema coreano. Non per nulla, quando il blockbuster Shiri di Kang Je-gyu uscì nelle sale coreane nel 1999, la campagna promozionale fece esplicitamente leva su questi sentimenti, invocando il sostegno all’industria nazionale contro Hollywood; l’esito fu un incasso record, superiore a quello di Titanic.

Al contempo, mentre la situazione industriale instabile ma fluida verificava crescente disponibilità di nuovi capitali per la produzione di film (la Samsung, ad esempio, investì in Shiri), il panorama cinematografico coreano era segnato dall’avvento di una nuova generazione di cineasti. Nel giro di un lustro, i cineasti attivi prima del 1997 vengono soppiantati (fa eccezione il decano Im Kwon-taek, che assume sempre più profilo e statura emblematici - e problematici - di ‘cineasta nazionale’) dalla leva dei trentenni, tanto in ambito commerciale (grazie al pregiudizio mercantile secondo cui una maggiore prossimità d’età favorisse consonanza di gusti con il pubblico dei ventenni e trentenni), quanto sul fronte della produzione d’autore.

Un anno prima di Lee esordiscono nel lungometraggio Hong Sang-soo (The Day the Pig Fell into the Well, Dwaeji-ga Umul-e Bbajin-nal, 1996) e Kim Ki-duk (Crocodile, Ageo, 1996), un anno dopo Im Sang-soo (Girls’ Night Out, Cheonyeodeul-eui Jeonyeok-shiksa, 1998), E J-yong (An Affair, Jeongsa, 1998) e Kim Jee-woon (The Quiet Family, Joyonghan Gajok), un po’ più tardi Bong Joon-ho (Barking Dogs Never Bite, Peullandeoseu-eui Gae, 2000). Tutti cineasti nella cui opera si riconosce un’acuta consapevolezza linguistica e da cui s’evince una complessa relazione in termini d’ispirazione e riflessione rispetto al contesto socio-culturale coreano (si vedano in tal senso gli accenti manifestamente distopici del primo Kim Ki-duk). L’esordio di Lee, che dopo un’esperienza come insegnante s’era dedicato alla scrittura ed era entrato nel mondo del cinema attraverso un sodalizio con Park Kwang-su, cineasta politicamente impegnato della new wave coreana di fine anni Ottanta-primi anni Novanta, per cui scrisse le sceneggiature di To the Starry Island (Geu Seom-e Gago Shipda, 1993) e A Single Spark (Jeon Tae-il, 1995), si smarca però dagli altri. La critica coreana vede, infatti, in Green Fish - e nella sua accurata descrizione del tessuto sociale su cui si staglia il tragico romanzo di un giovanotto che, appena congedato dalla leva, tenta la scalata nel mondo della criminalità organizzata, intessendo pure un flirt con la pupa del boss - una diretta filiazione con il ‘realismo sociale’ degli anni Sessanta, del cinema di grandi autori coreani quali Yu Hyun-mok o Lee Man-hee.

Un’impressione che molti vollero vedere riconfermata nel secondo lungometraggio di Lee, quel Peppermint Candy (Bakha Satang, 1999) che, per una serie di ragioni anche simboliche, è stato assurto a incunabolo della raggiunta maturità del nuovo cinema coreano. Primo film nazionale presentato in apertura del Busan International Film Festival (festival nato nel 1996 che ha accompagnato e supportato lo sviluppo del nuovo cinema coreano, facendosi per esso vetrina, e divenendo il più importante evento cinematografico d’Asia), Peppermint Candy è uscito in Corea il primo gennaio 2000 e il suo percorso attraverso gli ultimi vent’anni nella vita di un uomo, intrecciati strettamente all’ultimo ventennio di Storia della nazione sudcoreana, gli ha conferito un valore quasi testamentario rispetto al secolo appena concluso. Eppure, a ben vedere, Peppermint Candy segna per Lee una netta rottura rispetto a modalità di racconto propriamente realiste. I capitoli di cui si compone Peppermint Candy, infatti, sono montati in ordine inverso rispetto all’accadimento cronologico degli eventi rievocati: il primo atto del film si conclude con il suicidio del protagonista, Yong-ho (indimenticabile prova di Seol Kyeong-gu), che si getta sotto un treno, levando un grido: “Voglio tornare indietro!”. Il dispositivo cinematografico esaudisce, quindi, l’ultimo desiderio di Yong-ho, riportando l’uomo e lo spettatore indietro nel tempo, in un percorso a ritroso scandito da sequenze di raccordo che riavvolgono il percorso lungo le rotaie di un treno - forse proprio il treno che ha investito Yong-ho...

L’idiosincratica costruzione dell’intreccio di Peppermint Candy smaschera l’arguta consapevolezza di Lee rispetto alle prerogative e possibilità offerte dal mezzo cinematografico. In tal senso, il passaggio dietro la macchina da presa, per Lee, non è da intendersi come una mera prosecuzione della sua attività di scrittore, ma come l’esplorazione di un nuovo linguaggio, dotato di paradigma grammaticale e articolazioni sintattiche differenti. In Peppermint Candy, la struttura narrativa si fa veicolo sostanziante di una compenetrazione metaforica tra destino individuale e Storia di una nazione: la morte, la discesa agli inferi e prim’ancora la perdita d’innocenza di Yong-ho, sorta di uomo qualunque, sig. Rossi della Corea del Sud di fine Ventesimo Secolo, chiamano stringentemente in causa la crisi finanziaria figlia di un capitalismo rampante senza scrupoli, i lunghi, bui anni della dittatura militare e della repressione della protesta studentesca e dei movimenti democratici, nonché il tragico massacro di Kwangju (maggio 1980). Nel successivo Oasis, interpretato di nuovo dai bravissimi Seol Kyeong-gu e Moon So-ri, e vincitore del Leone d’Argento per la regia a Venezia 2002, Lee ha messo in scena la storia d’amore impossibile tra due marginali, un uomo un po’ tardo che ha appena scontato una pena in galera per un crimine invero commesso dal fratello e una paraplegica incapace di parlare e muoversi normalmente, reclusa in uno squallido appartamento da familiari che profittano dei suoi sussidi d’invalidità. Un’opera che è stata intesa come un impietoso attacco alle ipocrisie dell’istituzione familiare coreana, ma che si apre a sorprendenti parentesi fantastiche che danno corpo alle fantasie di ‘normalità’ degl’innamorati. Refrattario a qualsiasi compiacimento melodrammatico, pervicacemente incline a non fornire allo spettatore appigli alla facile commozione, Oasis sicuramente rimane la più toccante e sincera storia d’amore del cinema coreano recente.

Nel 2003, Lee accetta la nomina a Ministro della Cultura e del Turismo nel governo del Presidente Roh Moo-hyun, divenendo il primo cineasta a ricoprire un incarico ministeriale. Una carica che Lee, poco propenso a compromettersi con pastoie e bizantinismi della burocrazia, in concomitanza con un rimpasto dell’esecutivo, lascerà già l’anno successivo.

Nella sua fatica più recente, quel Secret Sunshine (in originale, Miryang, nome della città dove si situa l’azione) che è valso a Jeon Do-yeon il premio d’interpretazione femminile a Cannes 2007, Lee ribalta le premesse di Oasis e sceglie di non mostrare quel che il cinema potrebbe mostrare. Affrontando frontalmente il tema dell’invisibile, dell’ineffabile e del divino, attraverso la storia di una donna che ha perso il marito, perde il figlio, s’aggrappa alla fede e quindi perde anche quest’ultima, Lee indirizza lo sguardo dello spettatore verso il fuori campo di un cielo cui si levano occhi di sfida e punta la macchina da presa su un raggio di sole che illumina una pozzanghera per interrogare una presenza che non si dà. Laddove in Oasis Lee regalava ai suoi protagonisti il conforto di sogni ad occhi aperti che prendevano momentaneamente sopravvento sul reale, in Secret Sunshine, lascia la sua protagonista Shin-ae sola di fronte ad un Dio imperscrutabile che a lei non si manifesta. Una scelta di rigore assoluto che ‘rilancia’ la componente realista e persino sociologica del film. Su questo fronte, Lee preferisce sminuire la rilevanza del ritratto della presenza pervasiva (e invasiva) delle chiese protestanti nella società coreana; ciononostante, Secret Sunshine propone uno spaccato di notevole interesse su una realtà (troppo) poco rappresentata nel cinema coreano.
Presentazione Critica di Paolo Bertolin