REAL FICTION

Titolo Coreano:

실제 상황

Pronuncia Originale:

Sil-je Sang-hwang

Titolo Italiano:

Finzione Reale

Regista:

Anno:

2000

Durata:

84 min

Nazione:

Corea del Sud

Formato:

35mm

Tipologia:

Colore:

Colore

Lingua:

Coreano

Sottotitoli:

Italiano, Inglese

Genere:

Distribuzione Internazionale:

Edizione Festival:

Sezione Festival:

Rassegna/Retrospettiva:

Sinossi:

Un artista senza nome che dipinge ritratti nel parco subisce le angherie di clienti maleducati e di malintenzionati che cercano di rubargli il ricavato del suo lavoro. Quando una ragazza lo porta a teatro, si trasforma improvvisamente in un pericoloso criminale deciso a vendicarsi di tutti quelli che lo hanno maltrattato… Girato in 200 minuti con 10 macchine da presa e due videocamere digitali e con la collaborazione di 11 assistenti alla regia.

Recensione Film:

Tra le opere che seguono l’importante segnalazione internazionale che Kim Ki-duk ha ricevuto a Venezia con The Isle, Real Fiction è senza dubbio la più trascurata e sottovalutata; non senza un certo rammarico lo stesso regista ha osservato come molte persone abbiano considerato questo progetto più come un “evento” piuttosto che un film; il pur interessante e curioso aspetto sperimentale ha dunque portato la critica a glissare sul complesso e pregnante tema trattato.
Forse il modo migliore per avviare un doveroso processo di riscoperta di quest’opera è quello di rovesciare l’approccio fin qui attuato elencando brevemente lo sperimentalismo tecnico che ha caratterizzato la lavorazione per poi tentare di analizzare il contenuto proposto.
Per la sua opera quinta Kim ha scelto di girare l’intero film (della durata complessiva di 83 minuti) in 200 minuti, facendo uso simultaneo di 10 cineprese e 2 videocamere digitali. Una tale scommessa produttiva ha richiesto l’aiuto di ben 11 assistenti alla regia e oltre 10 giorni consecutivi di prove.
Se l’inusuale lavorazione fa di Real Fiction un film unico, la vicenda narrata rientra pienamente in quel “grande progetto cinematografico” costituito dalla filmografia di Kim Ki-duk; oltre ad approfondire con rabbia e coraggio il ritratto dei lati più oscuri e poveri della società coreana, in Real Fiction appaiono numerosi temi destinati a rincorrersi nelle opere del regista: il protagonista parla pochissimo (si pensi a The Isle e Bad Guy) e questa verbalità diradata viene innalzata a simbolo di sincerità e di ferita interiore, così come la vistosa cicatrice al collo (ripresa successivamente in Bad Guy), simbolo tangibile e indelebile dell’accanita competizione sociale; infine i trascorsi militari e la follia omicida del protagonista, elementi che saranno sviluppati ampliamente in The Coast Guard. Il tutto intrecciato (o forse meglio intaccato) da quella particolarissima crudeltà che costituisce la chiave interpretativa dell’intera filmografia di Kim Ki-duk. Con Real Fiction Kim intende descrivere tre differenti punti di vista dell’io: “l’io”, “un altro io” e “l’io sociale” e a ben vedere questa rigorosa e ardua ripartizione del soggetto – qui utilizzata per la prima volta – verrà mantenuta nelle opere successive. Lo sforzo di Kim è dunque diretto verso tutte le possibili sfaccettature del soggetto cercando di porre contemporaneamente in relazione l’io con un sé stesso “altro” e con i rapporti che l’individuo intesse con la società. In Real Fiction questa tripartizione viene proposta, sviluppata e portata fino all’ossimoro; e in fondo è proprio a ciò che Kim vuole giungere, all’inconciliabilità di realtà e finzione, all’impossibilità della finzione di farsi realtà e all’impossibilità della realtà di far radicare e agire in sé stessa la finzione. Se sotto un certo aspetto si potrebbe obiettare che la dialettica realtà/finzione e, con essa, la scoperta finale che la furia omicida del protagonista è solo un sogno, costituisce una metafora che sfonda porte aperte (si pensi per esempio ad American Psycho di Mary Harron), è da osservare che Kim non pone questa annosa dialettica come postulato bensì come catalizzatore dell’intera vicenda. Il regista mette in atto uno “spostamento in avanti” del confine della realtà creando così una dimensione doppia del reale cinematografico nella quale utilizzare la fiction – genialmente incarnata nella donna eterea (altro ossimoro) con la videocamera – come dimensione che pur essendo agente in potenza, è comunque incapace di modificare la realtà. La vendetta del protagonista, incitata dalla sua coscienza (“l’altro io”) e dalla donna, non sarà altro che un lucido viaggio in sé stesso, nelle sue più profonde e scottanti ferite. La dimensione fittizia mistifica tutto ciò, illudendo il protagonista (e quindi lo spettatore) che la sua azione sia tangibile, reale; d’un tratto la ribellione, la crudele uccisione della donna eterea ed il definitivo ritorno alla realtà (cinematografica). Uccisa la donna il protagonista tornerà esattamente dove prima. Nulla è mutato. Come se non fosse successo nulla; questa parentesi, quasi fosse un vuoto di racconto, Kim riesce magistralmente ad “allungarla” per la durata pressoché totale del film, come a voler suggerire che la crudeltà che mette nelle sue opere (dimensione fittizia) è sì circoscritta all’illusione cinematografica ma vorrebbe “essere riconosciuta come l’aspirazione a trovare un senso alla crudeltà delle nostre vite e del mondo in cui viviamo” (dimensione reale).

Film a suo modo leggendario (girato in 200 minuti, con 10 cineprese, 2 videocamere digitali e 11 assistenti alla regia), Real Fiction è un unicum nella filmografia di Kim Ki-duk (vi si avvicinerà forse un po', ma con tutt'altri presupposti, il successivo Arirang), un film-saggio “in presa diretta” che riflette su una delle grandi questioni della contemporaneità: che cos'è vero e che cos'è falso in un mondo in cui proliferano oltre ogni limite le immagini digitali? E qual è il possibile ruolo del cinema in questo stratificato panorama intermediale? Le risposte si possono (forse) trovare nella parabola di identificazione e vendetta di cui è protagonista Na (in coreano: “io”), un pittore di strada continuamente vessato, che grazie a una ragazza con la videocamera, incontrerà finalmente i suoi demoni. È nelle aporie della visione, negli scarti che si vengono a creare tra un'immagine e l'altra che bisogna affondare lo sguardo, suggerisce Kim Ki-duk: un occhio esterno sul mondo, indispensabile per distaccarsene e vedere meglio le cose.
Marco Luceri