JEON DO-YEON

Nome in coreano:

전도연

Pronuncia del nome:

Jon Do ion

Professione:

Attrice

Data di nascita:

11 Febbraio 1973

Genere:

Donna

Biografia

Jeon Do-yeon nasce l’11 Febbraio del 1973, ed inizia la sua attività giovanissima nel 1990, prendendo parte a numerosi show televisivi. Deve infatti la sua notorietà iniziale al piccolo schermo, che di fatto non abbandonerà neanche raggiunta la grande popolarità cinematografica, partecipando a progetti televisivi di successo come Shoot for the Stars (2002) e Lovers In Prague (2005), entrambi per l’emittente coreana SBS. La sua carriera sul grande schermo si apre nel 1997 con la commedia malinconica e romantica The Contact, e prosegue con numerose pellicole, altre tredici fino ad ora, tutte connotate da ruoli peculiari e differenti tra loro, che ne hanno messo in luce le qualità camaleontiche. Dal delicato The Armonium in My memory (1999) che le vale il Blue Dragon Award, al drammatico Happy end, nel quale interpreta il controverso ruolo di una donna che non riesce ad adempiere al suo ruolo di madre e moglie, Jeon tocca tutte le corde del femminile. E’ addirittura impegnata in un doppio ruolo nell’immaginifico My Mother The Mermaid, ed è una donna malata d’AIDS in You are my Sunshine. Dopo il trionfo di Secret Sunshine e la sua personale vittoria a Cannes 2007, torna al cinema con una pellicola, My Dear Enemy, che ha il profumo fresco di una commedia romantica fuori dagli schemi, per poi rigettarsi nel film d’autore puro con il discusso remake dello storico Housemaid ad opera del maestro Im Sang-soo, del quale è protagonista incontrastata. E’ attualmente sul set della sua 14esima fatica cinematografica, il thriller dagli evidenti risvolti drammatici The Road Home.

Presentazione Critica

Una delle questioni più annose ed irrisolte nel dibattito cinematografico italiano è certamente quella relativa alla mancanza di veri ruoli femminili di peso e spessore nel panorama odierno, soprattutto se rapportati alla grande tradizione che il nostro cinema può vantare e per cui viene sempre ricordato e citato: la donna dipinta dalle pellicole italiane attuali è invece sempre sottomessa a stereotipi, imbrigliata in ruoli predeterminati, senza spazi di manovra e con poche eccezioni alla regola. Se nel contesto statunitense quest’urgenza si fa più lieve, il cinema è oltreoceano industria di prim’ordine che fattura e produce economia e che deve quindi offrire un ventaglio di proposte più ampio possibile, sul territorio nostrano dove si gira poco e si ricorre sempre più alla sceneggiatura sicura e vendibile, tutto ciò non avviene, alimentando una polemica proverbiale e oramai sterile ed incancrenita.
Guardando all’esperienza coreana contemporanea si può avvertire come la loro società abbia scelto diversamente, grazie a registi e produttori illuminati, di raccontarsi attraverso donne che dominano la scena e che, se pur spesso subiscono, reagiscono quando con forza quando con spirito di sacrificio, ma comunque non soprassiedono. L’uomo è sempre più sull’orlo di una crisi di nervi, in preda alle proprie fragilità, al proprio fallimento umano, principalmente inadeguato. Quando è padre è spesso latitante, basti pensare alla lunga sequela di pellicole di famiglie sgretolate con donne pronte ad ogni sacrificio per sopperire alle mancanze dell’altra figura genitoriale, che spesso e volentieri non viene neanche evocata, ma come cancellata. E la donna è perlopiù una donna coraggio, capace di tenere le fila della propria vita e delle vicende che la coinvolgono, calata in una serie di contesti e situazioni limite che ne evidenziano le qualità intrinseche ed imprescindibili.
Non si può parlare di una novità, ma più che altro di un cambio di tiro che il cinema coreano in piena rivoluzione compie rispetto agli stilemi del passato: la donna mantide, magnifica ossessione del cinema coreano classico di autori simbolo come Kim Ki-young si emancipa ed esce da quella costrizione mentale e sociale che la vede strega, femme fatale o per dirla sempre con Kim Ki-young “Insetto”, “Water lady”, Woman of Fire”, divenendo elemento perlopiù positivo, o comunque fattivo, decisionista anche quando fallibile e mai, in modo predeterminato e pretestuoso, un elemento di disturbo diabolico e perturbante fine a se stesso.
Se c’è un’attrice che più di tutti ha dimostrato di saper rispondere a questa nuova urgenza con un’innata capacità di aderire a questo novello assioma del racconto coreano attuale, quella è Jeon Do-yeon, e non a caso, come in un’ideale chiusura di cerchio, è lei stessa che darà nuova linfa ed interpretazione a quello che era stato l’assillo preferito dello stesso Kim Ki-young, quella Housemaid che l’ha occupato per molte pellicole e che è stato il suo più grande successo ed il baluardo della sua personale filosofia d’interpretazione della società coreana di quel periodo.
Musa di grandi maestri come Lee Chang-dong, con il quale e grazie al quale è stata omaggiata del premio come Miglior Attrice al Festival del Cinema di Cannes nel 2007 unica e sola tra le interpreti orientali, ma anche grande ispiratrice di giovani talenti, Jeon Do-yeon ha attraversato la new wave cinematografica coreana cavalcandola e lasciando il segno. Grazie ad una versatilità fuori dal comune ha interpretato una varietà incredibile di personaggi, tutti legati dal filo rosso della grande volitività e dall’intensità che lei stessa, grazie ad un grande ed istrionico talento, ha saputo infondergli.
Considerata un alter-ego femminile di Song Kang-ho, con il quale ha recitato proprio nel Secret Sunshine che l’ha vista trionfatrice a Cannes, Jeon ha sin dal suo esordio con The Contact sempre brillato per la capacità di emergere e dominare sui co-protagonisti, grazie ad una carica attoriale e drammatica di gran lunga superiore a quella delle altre attrici della sua generazione, che è oltretutto cresciuta nel corso degli anni. Pellicole come You are my sunshine, Untold Scandal o, appunto, The Housemaid, ne mettono in luce le straordinarie doti d’interpretazione, rendendola un elemento imprescindibile per il cinema coreano contemporaneo, ed un valore aggiunto per ogni pellicola che la veda protagonista.
Solo quattordici ad oggi i film che possono vantare la sua presenza, un’esiguità numerica che ancor di più indica un desiderio di determinare la propria esistenza artistica senza cedere al compromesso della comodità:
donna estremamente concreta ed ambiziosa, non accetta di appiattirsi nel comodo alveo dell’interpretazione più congeniale, del genere che le calza a pennello, ma sperimenta, si ricrea, si mette in gioco, cambia volto, si trasforma, diventa di volta in volta un’altra da se’, calandosi con estrema naturalezza nel gioco delle parti, io sono colei che mi si crede: così è se vi pare.
La sua capacità d’adattamento è per sua stessa ammissione, figlia di quella palestra spesso criticata dai puristi d’ispirazione cinefila che è il serial televisivo, genere che nel corso degli ultimissimi anni si è rinnovato, soprattutto in territorio statunitense, trovando nuovi cultori ed esprimendosi spesso in modo più pregevole che il cinema stesso, ma che negli anni ‘90 che vedono Jeon Do-yeon recitare davanti alla lucina rossa della telecamera per la prima volta, ancora godeva di pessima fama.
Vissuta come l’uccisione della recitazione di livello, la tomba dell’arte scenica e della credibilità attoriale, la televisione non si presenta come il trampolino di lancio ideale per un’attrice realmente talentuosa come Jeon Do-yeon evidentemente è. La mancanza poi di studi classici, e nessuna esperienza sulle tavole di legno dei teatri, fomenta la diffidenza e fornisce alibi ai detrattori. Ma Jeon è coriacea e non si lascia scalfire dalle perplessità altrui, e quando la proposta della Myung Film arriva non ci pensa due volte e si fionda a capofitto nella fossa dei leoni con una pellicola malinconica e romantica come The Contact, di Chang Yoon-hyun. La sua interpretazione restituisce tutta la solitudine e la fragilità di una donna che è anche però quella di una generazione intera, che esce dalla pellicola confusa e sperduta, legata strenuamente ad esili rapporti umani ed amorosi che si fanno inconsistenti, rarefatti, solo immaginati. La debolezza di Su-heon (Jeon Do-Yeon), è solo presunta ed è lei che si fa unico vero attante della vicenda, come a rimarcare questo senso di decisività che il femminile porta con se’. Il meccanismo da lei innescato scardina uno stallo emotivo e d’azione oramai insostenibile e rivoluziona con grazia anche il destino di Dong-hyun (un Han Suk-gyu già suo collega nel primo Serial Tv di Jeon Do-yoon, Our Paradise).
Se la sua capacità di trainare ed orientare il racconto si evidenzia e si esprime sempre più nel successivo A Promise del debuttante Kim Yoo-jin, dov’è chiamata a rappresentare il fattore positivo in una coppia dove l’uomo è fallimentare perchè deviato dalla malavita, è con un suo film successivo che la forza di Jeon Do-yeon si avverte oltre che come attrice come donna consapevole e determinata, che sceglie un percorso ed una proposta interpretativa scomoda.
Dicevamo infatti di quanto la donna del cinema coreano odierno sia spesso una madre coraggio, basti pensare a pellicole come Mother di Bong Joon-ho, o Poetry dello stesso Lee Chang-dong che la farà brillare sul suo alter-ego maschile in Secret Sunshine. Ma Jeon Do-yeon, in quanto artefice del proprio destino ed allergica ad ogni tipo di cliché, sfida l’archetipo della donna eroica che poc’anzi abbiamo evidenziato come leitmotiv del cinema coreano principalmente d’autore, e trasferisce tutte le fragilità del femminile sullo schermo, senza però far perdere alle sue donne quella predominanza scenica e narrativa che solo lei nel panorama cinematografico del suo paese con tanta determinazione riesce a far emergere. Primo esempio di questa tendenza ancora una volta sovversiva è appunto il suo quarto film, Happy End, debutto alla regia di Jung Ji-woo che viene subito dopo un film dalla dinamiche piuttosto classiche come The Harmonium in My Memory. Se in quest’ultimo è una ragazza che si trova a lottare con una rivale per garantirsi l’affetto esclusivo di un uomo, qui la situazione si ribalta ed è proprio Bora (Jeon Do-yeon), al vertice di un triangolo amoroso da lei stessa imbastito.
Happy End, sin dal titolo che ironicamente prelude ad un finale amaro, è un film dall’allure misogina che paradossalmente lascia però lo scettro ad una Bora, che seppur destinata all’uscita di scena, mantiene sino all’ultimo la supremazia sulla storia. Qui l’inadeguatezza del maschile, che rende l’uomo vero e proprio zimbello, viene ripagata da un epilogo scioccante, che cerca di rideterminare quelle che sono le dinamiche sociali che una donna così lontana dall’angelo del focolare ha sovvertito. Seppur in questa critica sfacciata si ravvisi, come dicevamo, dell’ostilità nei confronti di una donna che si è posta indebitamente in una condizione fedifraga usualmente maschile, Jung Ji-woo che la dirige non riesce a mantenere in un regime di sottomissione Bora-Jeon Do-yeon neanche quando oggettivamente non è più in scena. Il fascino che emana quasi giustifica i suoi atti odiosi, ed è lo stesso Jung che pare rimanerne ammaliato, rendendola padrona della scena, riempiendo le inquadrature di lei e dei suoi turbamenti di donna imperfetta, incompleta e colpevole. Choi Min-sik, suo partner della pellicola e anche lui agli albori di una carriera che lo vedrà presto celebre con film memorabili come Old Boy di Park Chan-wook e Ebbro di Donne e di Pittura di Im Kwon-taek, le cede il passo con generosità lasciando che Jeon emerga in tutte le sfumature di donna, come elemento fragile e tormentato, ma anche come essere consapevole e determinato.
Happy End segna così quindi un punto fondamentale a favore di Jeon Do-yeon, tracciando un sentiero complesso nella sua carriera, e costituendo un precedente non ignorabile per i soggetti e le sceneggiature che successivamente sarà chiamata a valutare e scegliere.
Due anni dopo è per Jeon Do-yeon il momento di ripetere l’esperienza di una commedia romantica con I Wish I Had a Wife, di estrazione simile al The Contact che l’ha lanciata, ma è subito dopo, l’anno successivo, che Jeon ancora una volta spiazza e cambia direzione con un film d’azione atipico.
No Blood No Tears di Ryoo Seung-wan, è di per se’ un film femminile, dove protagoniste incontrastate sono due donne scaltre e prevalenti. Il conflitto, se di conflitto si può parlare, è quindi semmai interno e generazionale, ma è anche, ancora di più quello tra di loro, un sodalizio femminile contro il maschile. Non si tratta di banale comprimarietà per queste due donne che si appropriano di un genere tradizionalmente maschile e lo maneggiano con cura e credibilità, ma di vero e proprio dominio della vicenda. Dal canto suo, Jeon regge egregiamente il confronto con la collega Lee Hye-young, più esperta di lei e portatrice di una forma di femminilità, quella spregiudicata e al contempo asservita ad un desiderio maschile che l’ha vista esordire con Beetween the Knees, che è anche quella che la vede Queen Bee, e quindi moralmente e sin da subito opinabile e condannabile oltre che sottomessa al giogo ideale e fisico dell’uomo. Jeon in questo è il nuovo che avanza, primo baluardo della rinnovata tendenza, staffettista che raccoglie il testimone.
Ma Jeon Do-yeon ancora una volta non è interessata a dimostrare a tutti i costi alcuna militanza o dichiarazione d’intenti, e lascia che a questo esperimento succeda qualcosa di ben più classico.
Dopo l’esperienza inedita di No Blood No Tears, Untold Scandal la rimette infatti sul binario della tradizionalità, con il genere dell’orgoglio nazionale coreano, quello che svela al mondo e ai coreani stessi gli usi e costumi del Paese e le dinamiche della lunga era Chosun, sebbene qui attraverso l’adattamento di un romanzo di chiare radici europee. Untold Scandal regala quindi a Jeon Do-yeon un’interpretazione più istituzionale e meno trasgressiva sul piano dell’autonomia recitativa, ma non per questo degna di meno valore o considerazione. Lee Jae-young dirige un racconto fatto di intrighi di palazzo e abiti sontuosi, con una fotografia, una cura della rappresentazione ed un erotismo estetizzato che spingono Untold Scandal al botteghino e accrescono la popolarità di Jeon Do-yeon, popolarità che la traghetta verso una delle sue opere più celebri e rappresentative
My Mother The Mermaid, una delle pellicole in cui più si esprime il talento naturale di Jeon Do-yeon è un esperimento tecnicamente virtuoso ed impegnativo, che ne rivela tutto il potenziale attoriale. Jeon torna quindi a farsi dirigere da quel Park Heung-shik che l’aveva già voluta in I Wish I Had a Wife, e lo fa con una nuova consapevolezza ed una pellicola immaginifica e bizzarra sempre sul filo del sentimentalismo e con una vocazione specifica per l’indagine delle dinamiche uomo/donna, a lei ormai proverbialmente divenute care. In My Mother The Mermaid Jeon è chiamata a sdoppiarsi e raddoppiarsi allo stesso tempo, elevando a potenza la sua interpretazione. Nel duplice ruolo di madre e di figlia Jeon incarna le due realtà sociali della donna coreana di un tempo che fu e di quella emancipata e moderna, fungendo da collante ideale tra le due culture.
Dopo questa parentesi quasi intimista e familiare che Park Heung-shik le offre Jeon si prepara ad una nuova prova d’attrice..
You Are My Sunshine è il ritorno ad un personaggio “scomodo”, sfaccettato, pieno di contraddizioni e fallimenti e di dolore, ed è preludio perfetto a quello che sarà “il personaggio” di Jeon Do-yeon, quella Shin-ae che diverrà per lei in brevissimo tempo croce e delizia.
Secret Sunshine è infatti l’apoteosi di questa nuova direttiva di cui abbiamo molto discorso in incipit, questa glorificazione della donna e della sua capacità di riemergere dalla tragedia e rinnovarsi, riaffiorando dalle ceneri della disperazione e dello sconforto più totale come un’araba fenice. La dialettica con Song Kang-ho, ottimo interlocutore che però lo stesso Lee Chang-dong sceglie di marginalizzare, rende Jeon Do-yeon e questa sua donna profondamente drammatica e tormentata, vincente nonostante i lutti ed i dubbi a cui si trova dinanzi. Shin-ae (Jeon Do-yeon) è funestata dalle più indicibili tragedie, in una spirale di dolori che sembra, da parte di Lee Chang-dong un infierire cinico e senza scrupoli, ma è soprattutto colei capace di sottoporsi ad una catarsi purificatrice che è anche abbandono delle proprie ancore di salvezza spirituali, un’autentica tabula rasa. Al di là di certe critiche mosse al film all’indomani della sua presentazione per lei è subito successo, è subito fama, è subito trionfo. Cannes la acclama e la elegge migliore attrice dell’edizione, e la critica mondiale la segnala come perla ed elemento cardine della pellicola, al di là di quelle che sono le debolezze presunte o tali del film. E la vertigine, il senso di smarrimento è inevitabile
Mantenere le aspettative che un premio del genere impone è esperienza ardua.
Jeon grazie ad un riconoscimento internazionale di tali proporzioni assurge a vera ispiratrice ed eroina di un intero continente, leader di quell’ondata cinematografica coreana che oggi trova il suo picco massimo e che vale per un Oriente intero. E’ un fardello pesante, simile a quello che molti premi Oscar portano con se’, rimanendo spesso schiacciati dal peso dell’aspettativa altrui e dalla impossibilità di replicare con cognizione e premeditazione un evento tanto inaspettato e apparentemente imponderabile.
Jeon decide così, un po’ per incoscienza, un po’ per esorcizzare, un po’ per non cadere nella trappola dell’attesa, di cambiare totalmente ed ancora la rotta del suo percorso filmografico, affidando a Lee Yoon-ki il compito ingrato di spazzarle via di dosso l’aura mistica che Secret Sunshine le aveva regalato.
E My Dear Enemy è la risposta più imprevedibile, ma al contempo più calzante a quella che è un’ansia da prestazione indotta, che tenta senza successo di assalirla e cerca di stritolarne il sentiero. Un profilo basso quello espresso dalla scelta di una pellicola come My Dear Enemy, che ancora una volta dimostra come Jeon Do-yeon non voglia affatto nutrirsi dello sconvolgimento mediatico tentando magari di volgerlo a proprio favore, ma che anzi vuole riportare il discorso sul piano concreto della recitazione. Il suo ruolo è indicativo, perché sembra aderire appieno a quello che è il suo stile di donna e di attrice, uno stile asciutto, senza fronzoli, di una donna pragmatica che non si lascia incantare dalle lusinghe e dalle moine altrui, siano queste quelle di un pubblico ed una critica adorante, oppure quelle di un ex fidanzato spiantato ed inaffidabile come Byung-woon (Ha Jung-woo).
Lee è al suo quarto lavoro, si è fatto spazio nel panorama cinematografico coreano con pellicole di discreto successo come Love Talk, Ad-lib light e This Charming Girl, vincitore nel 2005 del gran Premio della Giuria al Sundance Film Festival. Con l’esperienza maturata e l’ottima capacità registica intercetta questa necessità di Jeon Do-yeon e non la idolatra ne’ sovradimensiona nel dirigerla, ma la aiuta a smitizzarsi. In questo gioco della normalità, in questo atipico road-movie in cui sostanzialmente poco accade, è proprio l’alchimia e il perfetto contrappeso tra Jeon e la sua vecchia conoscenza Ha Jung-woo a sostenere la narrazione, non lei a predominare, ma loro, insieme, a condurre. Che il suo personaggio sia, per forza di cose, quello potenzialmente vincente sta nel gioco delle parti che Lee Yoon-ki ha imbastito, ma man mano che la rigidità decade e si intravedono le tenere debolezze di questa donna coriacea, è lì che anche il predominio iniziale viene meno.
E My Dear Enemy riesce nell’impresa di far accantonare ai più i successi ottenuti con Lee Chang-dong e, una volta rotto il proverbiale ghiaccio del dopo Secret Sunshine, Jeon Do-yeon ha ormai esorcizzato il pericolo di incorrere in un personaggio altamente tipizzato e può quindi abbandonarsi ancora all’imprevedibilità di un’altra donna anticonvenzionale. Ma prima ancora deve fare i conti con uno dei capisaldi del cinema coreano classico, facendosi carico, insieme ad Im Sang-soo, di una discussa rilettura di The Housemaid, opera ritenuta quasi intoccabile, del maestro Kim Ki-young. Insieme ribaltano l’assioma già citato della donna che, grazie al gioco spietato della seduzione attira nelle sue spire l’uomo e lo stritola, ma restituisce il fardello della colpa al maschile e alla sua perdita di morale, e al cinismo spietato che domina in certi strati della società.
The Housemaid è infatti una pellicola che come era accaduto con il suo illustro precedente, vuole raccontare la società coreana odierna ed i suoi mutamenti al di là della pruriginosa vicenda che è al centro della narrazione. Jeon Do-yeon reinventando la sua servetta e rendendola remissiva e soggiogabile rende alla perfezione il desiderio di Im Sang-soo, fornendo così una trasposizione contemporanea di una storia senza tempo.
Com’era già accaduto con l’opera di Lee Chang-dong anche questo The Housemaid raccoglie pareri discordanti, opinioni che però come nel precedente caso si fanno coro unanime nel proclamare ancora una volta Jeon Do-yeon punto fermo del film grazie al suo indiscutibile valore. Forte di questa fiducia ormai acquisita anche le scelte più commerciali e meno impegnate sono per Jeon Do-yeon un esercizio di stile frequentabile senza timori o indugi. Ed è così, in quest’ottica, che si inscrive la scelta del film che succede a The Housemaid.
Countdown è un divertissement, un gioco di travestimenti, reali ed ideali, in cui la natura ibrida e camaleontica di Jeon Do-yeon si esprime in modo quanto mai ludico e potente. E’ lei stessa Cha Ha-yeon che Jeon interpreta ad essere l’enigma, l’impalpabile anti-eroina truffaldina e senza scrupoli, capace di farsi beffe dei sentimenti di un uomo, il suo partner ed alter-ego Jung Jae-young, alias Tae Gun-ho, anche quelli più teneri e profondi da padre ferito. Liberarsi della responsabilità di dover assurgere a testimone morale della vicenda in questo caso la avvantaggia, lasciandole la possibilità, per una volta, di divertirsi scanzonatamente con il suo personaggio e di dimostrare, ancora una volta, la sua capacità di rifuggire da glorificazioni ed ingerenze esterne, per abbandonarsi invece al puro gioco delle maschere.
E ancora una volta, metabolizzata l’esperienza, Jeon non si ferma.
Di The Road Home, che nel momento in cui scriviamo è ancora nella prima fase di lavorazione, ben poco si sa, se non che ancora una volta una pellicola ha scelto di avvalersi della centralità di Jeon Do-yeon, della sua potente presenza scenica, e del suo essere sempre “Una Nessuna e Centomila”, per garantirsi, già sulla carta un grande successo.