BREATH

Titolo Coreano:

Pronuncia Originale:

Som

Titolo Italiano:

Soffio

Regista:

Anno:

2007

Durata:

84 min

Nazione:

Corea del Sud

Formato:

35mm

Tipologia:

Colore:

Colore

Lingua:

Coreano

Sottotitoli:

Italiano, Inglese

Produzione:

Distribuzione Internazionale:

Sceneggiatori:

Musiche:

Direttore alla Fotografia:

Montaggio:

Direttore Artistico:

Direttore delle Luci:

Costumista:

Edizione Festival:

Sezione Festival:

Sinossi:

Yeon vive in una splendida casa modernista e il suo matrimonio, così come il suo arredamento, sono freddi come un catalogo di design. Ascolta in tv la notizia che un uxoricida condannato a morte, Jang Jin ha tentato il suicidio, e decide di andarlo a trovare in carcere. Ad ogni incontro trasforma il parlatoio in una "stanza della stagione", con carta da parati, musiche e fiori, e canta per Jang Jin una canzone. Il loro rapporto diventa sempre più stretto e carnale, sotto gli occhi curiosi del direttore del carcere, che interrompe sempre i loro congiungimenti sul più bello. Nell'ultimo incontro, con un bacio, cercherà di strappargli il respiro e la vita.

Recensione Film:

Lo Jang Jin di "Soffio" non è troppo diverso dal Tae-suk di "Ferro 3" (di cui eredita anche la permanenza silenziosa in cella): Yeon e Sun-hwa si accostano a questi spiriti del presente (il passato di Tae-suk è totalmente avvolto nel mistero, quello di Jang Jin è macchiato dall'omicidio della moglie, ma non viene fornita nessuna motivazione al gesto), e attraverso una pratica rituale e scandita ritmicamente, riescono a uscire dal proprio stato di autistica solitudine. Là era la visita nelle case vuote, qui gli incontri al parlatoio: rimane inalterata il desiderio di costruire una casa fuori dallo spazio abitativo, un tratto comune rubato ai vincoli altrui (la presenza degli effettivi proprietari, le regole del "contatto" imposto dal carcere). Dopo, c'è la libertà: di morire per Jang Jin (come per Tae-suk) e di incominciare una nuova vita per Yeon, che canterà l'ultima canzone (quella invernale) in macchina con il marito e la figlia, come una famiglia, dopo aver giocato a palle di neve sul cortile fuori dalla prigione. Eppure, solo un attimo prima, il direttore del carcere "montava" con il suo sistema di videosorveglianza, i corpi dei due amanti che si stringevano nella cella e il marito che giocava inconsapevole con la figlia. Yeon aveva "bisogno" di soffiare fuori dal corpo del fantasma l'ultimo fiato di vita: perché l'ultimo respiro del condannato a morte non si perde sulla macchina di tortura, ma in un bacio così intenso da diventare quasi mortale.
Le "stanze delle stagioni" sono una piccola ma pirotecnica invenzione visiva, una sorpresa tinta nel grottesco e carico di ironia: il registro pensoso con cui la macchina da presa segue Yeon mentre esce dalla propria casa sotto gli occhi del marito, vestita con abiti leggeri mentre intorno c'è la neve, si trasforma nel surreale più sfrenato quando inforca gli occhiali da sole e canta un'improbabile "canzone dell'estate" coreana nella cella trasformata. Quello scarto, l'irrealtà della carta da parati, della musica e dei movimenti da karaoke che stride contro l'immobilità di una guardia carceraria e dello stesso, perplesso, Jang Jin, quella varianza visiva, di senso, di regime, che è alla base del grottesco: quella differenza interna è ancora la forza del cinema di Kim Ki-duk. Perché in un tessuto coeso che ad ogni inquadratura sembra voler dialogare con il "sistema KKD", rimangono dei buchi neri e degli spazi bianchi, nei quali il suo cinema-mantra, sembra trovare nuova forza. I punti di forza di "Soffio" sono quelli in cui rimane una traccia di ambiguità nella trama delle simbologie: perché Jang Jin ha ucciso la moglie? Qual è davvero il legame tra Yeon e Jang Jin? È possibile che il semplice richiamo di una notizia in televisione sia sufficiente a farla uscire dal letargo in cui è caduta per incominciare quella relazione impossibile? Chi è il direttore del carcere? Perché guarda? E cosa succederà dopo? Il non senso si amplifica e risuona come in una stanza vuota, quando sbatte contro la galleria di piccoli quadri superbi che, ancora una volta, sono all'altezza del talento visivo del regista: una camicia che cade, un intrico muto di corpi maschili, un bacio.
Sembra quasi che nell'ossessione a chiudere il senso e a saturare i riferimenti e le simbologie, il cinema di Kim Ki-duk trovi un respiro nuovo proprio nel suo stesso fuori campo, in quello che scappa, che non si chiude, che non si dice.